giovedì 24 marzo 2016

La parte più vitale del Paese

Di Massimo Russo (*)

I Paesi che sanno trasformare i nuovi arrivati in cittadini sono quelli che crescono di più. E che attirano l’immigrazione di qualità: le persone con un grado di scolarità maggiore.  
Ecco perché, prima ancora che per ragioni di giustizia sociale, le politiche per l’immigrazione e lo ius soli - ovvero la possibilità di diventare cittadini per gli stranieri che nascono in Italia - sono un investimento sul nostro domani. La legge per lo ius soli, approvata alla Camera a dicembre, staziona al Senato. Ufficialmente senza una ragione precisa, ufficiosamente perché la maggioranza teme che la sua approvazione potrebbe essere un boomerang, utilizzato da chi brandisce come una clava la paura del diverso. I politici ritengono che gli italiani non siano pronti ad accettare i nuovi italiani, stranieri che diventano connazionali per nascita.

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Ma il nostro problema è un altro. La qualità degli immigrati che scelgono l’Italia oggi è più bassa di quanti cercano una nuova vita in altri Paesi europei. Non siamo una destinazione attraente per i migliori. Lo dimostrano i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Tra il 2000 e il 2010 il tasso di stranieri laureati è cresciuto di oltre 15 punti in Danimarca, di più di 10 in Germania e Gran Bretagna, del 5% circa nella media dei Paesi Ocse. In Italia, Spagna, Portogallo e Grecia invece è diminuito. Nella Penisola tra 2009 e 2014 è salita la quota degli stranieri analfabeti (+2,1), e oltre un terzo dei nuovi arrivati ha la qualifica di operaio. Nonostante ciò, già oggi gli immigrati sono nella fascia più vitale della popolazione. Le imprese individuali aperte da cittadini di provenienza extraeuropea l’anno scorso sono state quasi 50 mila, e hanno raggiunto quota 350 mila, un decimo del totale. Si tratta per la maggior parte di artigiani e commercianti, che contribuiscono allo stato sociale, alla crescita del prodotto interno lordo, fanno spesso mestieri che noi italiani, invecchiati, non gradiamo più. Seicentomila persone ricevono la pensione grazie ai contributi degli extracomunitari.

Ma non basta. Coloro che hanno una scolarità più alta, oltre ad avere una migliore posizione socio-economica sono anche quelli che si integrano di più, che sono pronti a mescolare l’identità del Paese che li accoglie con la propria. E sapere che i propri figli saranno cittadini a tutti gli effetti, con diritti e doveri uguali a quelli di qualsiasi altro europeo, è importante. Gli stranieri musulmani che vivono negli Stati Uniti, ad esempio, stando a un’indagine dell’istituto Pew, prima della loro appartenenza religiosa si sentono americani, reputano l’integralismo un grave problema, ritengono la condizione femminile migliore in Occidente che nei Paesi islamici. In Europa spesso non è così.

Non c’è da meravigliarsi se negli Usa le imprese di maggior successo sono create da stranieri di prima o seconda generazione: sono loro gli americani più brillanti. Basta guardare ai quattro colossi del digitale: uno dei due fondatori di Google, Sergey Brin, è nato a Mosca; il padre di Steve Jobs di Apple era siriano; il patrigno di Jeff Bezos di Amazon era un migrante cubano che imparò da solo l’inglese dopo esser arrivato in America a 15 anni; infine uno dei cofondatori di Facebook, Eduardo Saverin, è brasiliano. È sufficiente visitare i distretti dell’innovazione per rendersi conto che India ed Estremo Oriente sono le regioni più rappresentate.

Il contratto sociale è semplice. Un Paese certo della propria identità culturale offre opportunità e pretende rispetto da chiunque vi si voglia riconoscere. E ottiene in cambio l’orgoglio di diventarne cittadino.

*Apparso sul sito web de "La Stampa", quotidiano di Torino, il 24/03/2016. Link:http://www.lastampa.it/2016/03/18/cultura/opinioni/editoriali/la-parte-pi-vitale-del-paese-hMWhv2vUAHALKs54KhEAnN/pagina.html
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