Di Massimo Russo (*)
I Paesi che sanno trasformare i nuovi arrivati in cittadini sono
quelli che crescono di più. E che attirano l’immigrazione di qualità:
le persone con un grado di scolarità maggiore.
Ecco perché, prima ancora che per ragioni di giustizia sociale, le politiche per l’immigrazione e lo ius soli
- ovvero la possibilità di diventare cittadini per gli stranieri che
nascono in Italia - sono un investimento sul nostro domani. La legge per
lo ius soli, approvata alla Camera a
dicembre, staziona al Senato. Ufficialmente senza una ragione precisa,
ufficiosamente perché la maggioranza teme che la sua approvazione
potrebbe essere un boomerang, utilizzato da chi brandisce come una clava
la paura del diverso. I politici ritengono che gli italiani non siano
pronti ad accettare i nuovi italiani, stranieri che diventano connazionali per nascita.
Ma il nostro problema è un altro. La qualità degli immigrati che
scelgono l’Italia oggi è più bassa di quanti cercano una nuova vita in
altri Paesi europei. Non siamo una destinazione attraente per i
migliori. Lo dimostrano i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e
lo sviluppo economico. Tra il 2000 e il 2010 il tasso di stranieri
laureati è cresciuto di oltre 15 punti in Danimarca, di più di 10 in
Germania e Gran Bretagna, del 5% circa nella media dei Paesi Ocse. In
Italia, Spagna, Portogallo e Grecia invece è diminuito. Nella Penisola
tra 2009 e 2014 è salita la quota degli stranieri analfabeti (+2,1), e
oltre un terzo dei nuovi arrivati ha la qualifica di operaio. Nonostante
ciò, già oggi gli immigrati sono nella fascia più vitale della
popolazione. Le imprese individuali aperte da cittadini di provenienza
extraeuropea l’anno scorso sono state quasi 50 mila, e hanno raggiunto
quota 350 mila, un decimo del totale. Si tratta per la maggior parte di
artigiani e commercianti, che contribuiscono allo stato sociale, alla
crescita del prodotto interno lordo, fanno spesso mestieri che noi
italiani, invecchiati, non gradiamo più. Seicentomila persone ricevono
la pensione grazie ai contributi degli extracomunitari.
Ma non basta. Coloro che hanno una scolarità più alta, oltre ad avere
una migliore posizione socio-economica sono anche quelli che si
integrano di più, che sono pronti a mescolare l’identità del Paese che
li accoglie con la propria. E sapere che i propri figli saranno
cittadini a tutti gli effetti, con diritti e doveri uguali a quelli di
qualsiasi altro europeo, è importante. Gli stranieri musulmani che
vivono negli Stati Uniti, ad esempio, stando a un’indagine dell’istituto
Pew, prima della loro appartenenza religiosa si sentono americani,
reputano l’integralismo un grave problema, ritengono la condizione
femminile migliore in Occidente che nei Paesi islamici. In Europa spesso
non è così.
Non c’è da meravigliarsi se negli Usa le imprese di maggior successo
sono create da stranieri di prima o seconda generazione: sono loro gli
americani più brillanti. Basta guardare ai quattro colossi del digitale:
uno dei due fondatori di Google, Sergey Brin, è nato a Mosca; il padre
di Steve Jobs di Apple era siriano; il patrigno di Jeff Bezos di Amazon
era un migrante cubano che imparò da solo l’inglese dopo esser arrivato
in America a 15 anni; infine uno dei cofondatori di Facebook, Eduardo
Saverin, è brasiliano. È sufficiente visitare i distretti
dell’innovazione per rendersi conto che India ed Estremo Oriente sono le
regioni più rappresentate.
Il contratto sociale è semplice. Un Paese certo della propria
identità culturale offre opportunità e pretende rispetto da chiunque vi
si voglia riconoscere. E ottiene in cambio l’orgoglio di diventarne
cittadino.
*Apparso sul sito web de "La Stampa", quotidiano di Torino, il 24/03/2016. Link:http://www.lastampa.it/2016/03/18/cultura/opinioni/editoriali/la-parte-pi-vitale-del-paese-hMWhv2vUAHALKs54KhEAnN/pagina.html
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