Di Andrea Merlo(*)
A poche ore dai drammatici
fatti di Bruxelles, pur disponendo di frammentarie informazioni e di
bilanci ancora parziali, è tuttavia possibile cercare di individuare
alcune chiavi di interpretazione della situazione attuale sia belga sia
più generalmente continentale, nel tentativo di consegnare un quadro
analitico delle debolezze e problematiche che investono, ormai con
assoluta urgenza, la sicurezza europea.
Innanzitutto, il quarto grande evento terroristico condotto sul
territorio europeo dopo Londra, Madrid e Parigi, ci ricorda come la
strategia jihadista sia tutt’altro che “folle” e “irrazionale”: le
formazioni jihadiste, comunque composte (lupi solitari, cellule
homegrown, returnees, reti transnazionali) si attivano anche in base a
logiche ben precise e del tutto razionali. Con ogni evidenza, per le
modalità di esecuzione e per la complessità insista in un’operazione che
prevede azioni sostanzialmente simultanee (come nel caso di Londra e
Parigi), si tratta di un attacco organizzato da tempo e ben congegnato,
a ulteriore riprova del salto di qualità logistico già dimostrato da
parte delle cellule radicali autoctone. Un piano senz’altro in cantiere
da tempo, quindi, che non è fuori luogo ipotizzare sia scattato in
risposta all’operazione di polizia che ha condotto all’arresto di Salah
proprio a Molenbeek, la “Raqqa d’Europa”.
Con ogni probabilità, l’azione terroristica ha una forte componente mediatica: i gruppi jihadisti
attivi nel cuore della capitale dell’UE hanno inteso dimostrare la
propria vitalità operativa e capacità di reazione.
– la rivendicazione da parte di Daesh (e non della rete di Al Qaeda)
suggerisce inoltre che l’attacco odierno risponda anche ad una precisa
esigenza avvertita dalla dirigenza dello Stato Islamico: in difficoltà
sul piano bellico nello scacchiere siro-iraqeno, e di fronte ad una
contrazione del flusso di foreign figthers diretti nei territori
controllati dall’esercito di Al Baghdadi (in aggiunta a fenomeni di
diserzioni tra le fila dei miliziani di ISIS), Daesh deve dimostrare la
propria forza, se non bellica, almeno attrattiva e mediatica tanto al
mondo occidentale quanto ai suoi potenziali aderenti e simpatizzanti.
Anche portando a termine – o ispirando – attacchi in grande stile sul
modello parigino (come molte agenzie di informazione e sicurezza avevano
previsto già alla fine del 2015).
– sul piano della politica di sicurezza, i fatti di Bruxelles confermano
ulteriormente come la minaccia jihadista abbia smesso i tradizionali
panni del improvvisazione logistica e dell’adesione settaria,
minoritaria e fanatica, per vestire quelli di una strategia che, sul
piano organizzativo, potremmo definire di “anarchismo coordinato”, in
grado di autosostenersi nei territori europei grazie ad una
radicalizzazione religioso-culturale penetrata in profondità nella mente
e nel corredo valoriale di un numero preoccupante di musulmani europei.
A dispetto della interpretazione diffusa, il problema non si colloca
tanto a livello di apparati di sicurezza, quanto piuttosto
fondamentalmente sul piano dell’indirizzo politico: è infatti la
mancanza di volontà/capacità politica di individuare la cifra esatta
della minaccia (con i suoi sfuggenti connotati, le sue origini e i
complicati meccanismi nazionali, internazionali e transnazionali di
finanziamento e sostegno) che impedisce agli apparati di prevenzione e
repressione di far fronte coerentemente e con sufficiente efficacia a
manifestazioni di radicalismo sempre più catastrofiche. L’intreccio tra
incapacità politiche e inadeguatezza degli apparati di sicurezza ha
generato pertanto problematiche che affiorano oggi, con prepotente e
sconcertante violenza, sia nella dimensione nazionale (belga e non solo)
che sul piano euro-continentale.
prospettiva nazionale belga – le autorità belghe hanno dimostrato,
oltre che scarse capacità di presidio del territorio, anche e
soprattutto una imbarazzante difficoltà nell’ottenere la collaborazione
“civica” delle comunità dei quartieri bruxellesi a maggiore presenza
islamica, giungendo rocambolescamente alla cattura di Salah dopo mesi di
una latitanza definita da taluni come “mafiosa”, poiché sostanzialmente
garantita e protetta dalla connivenza di buona parte degli abitanti
della commune di Molenbeek. Questo rappresenta il preoccupante risultato
della prolungata sottovalutazione politico-governativa delle
conseguenze della penetrazione del radicalismo di matrice islamica nel
tessuto sociale della comunità islamica bruxellese (e belga in
generale). Le autorità politiche non hanno compreso appieno la natura e
le conseguenze, sul piano della sicurezza interna, dell’attentato al
Museo Ebraico del maggio 2014, primo evento terroristico nella capitale
d’Europa e momento che ha chiaramente segnato il passaggio di Bruxelles
da centro meramente logistico del jihad europeo a testa di ponte
operativa e possibile teatro di guerra asimmetrica. L’incapacità
politica di cogliere la portata dell’escalation lanciata dalla filiera
terroristica ha impedito agli apparati di sicurezza, già ridimensionati
sin dai primi anni ’90, di operare avvalendosi di risorse, mezzi e
(soprattutto) strumenti di analisi e di reazione adeguati ai segnali di
“attivazione terroristica” in rapido aumento sul suolo belga. Nulla può
l’intelligence (specie se depotenziata) quando gli organi di direzione
politica ignorano troppo a lungo (spesso per miopi ragioni elettorali)
le dimensioni di una minaccia concreta, e non approntano pertanto le
necessarie misure sul piano dell’attività di counterterrorism.
prospettiva nazionale europea – le fragilità del contesto
socio-politico e del sistema di sicurezza interna si sono manifestate
con particolare evidenza in Belgio, ma altri Paesi europei non sono
esenti dallo stesso genere di debolezze. L’incapacità (o la non-volontà)
delle élites politiche europee di interpretare e affrontare per tempo
la minaccia del jihad globale è la principale causa dell’inefficacia
dell’attività di prevenzione e repressione della radicalizzazione
islamica. Pur senza le adeguate risorse e in mancanza di strumenti
adatti a comprendere analiticamente l’evoluzione sociale, organizzativa e
logistica della filiera terroristica, in alcuni casi le agenzie di
informazione e sicurezza sono state in grado di avvertire il decisore
politico circa la possibilità di attacchi in grande stile, ma non sempre
con successo (anche l’intelligence belga, secondo quanto riportano
alcune agenzie, avrebbe avvertito il governo dell’imminenza di un
attacco). Disattenzione (e sottovalutazione) politica o meno, è
necessario ora che i governi europei, singolarmente presi, ridisegnino
lo schema delle priorità politiche interne, consegnando al tema della
sicurezza interna la giusta attenzione e dotando le rispettive agenzie
di sicurezza e gli organismi di law-enforcement di risorse tecniche ed
umane in grado di penetrare nella intricata trama del jihad europeo,
contro il quale nulla o quasi possono le logiche e gli strumenti di
analisi dell’intelligence tradizionale (difesa militare,
controspionaggio politico, etc…). Attualmente, sul terreno informativo e
preventivo, gli organismi di molti Paesi europei sono ancora inadeguati
ad affrontare al meglio una sfida non futuribile, ma attuale e
drammaticamente urgente.
prospettiva europea comunitaria – occorre sgombrare il campo da un
grossolano equivoco, che anche oggi, come dopo ogni dramma di queste
dimensioni, riecheggia nel dibattito pubblico: il coordinamento
dell’intelligence a livello europeo. A parte alcuni meccanismi di
dialogo intergovernativo, è impossibile immaginare in ambito UE una vera
e propria cooperazione capace di mettere a sistema comune un volume di
informazioni utile e sufficiente ad affrontare efficacemente il
problema. Questo fondamentalmente per più motivi: innanzitutto, lo
scambio di informazioni tra servizi nazionali di informazione e
sicurezza avviene regolarmente, nel quadro però di un “mercato” fondato
sulla logica del baratto. E’ impensabile che le agenzie nazionali si
scambino, in piena e spontanea sinergia, i rispettivi patrimoni
informativi, che rappresentano il prodotto finale dell’utilizzo di forze
e risorse sia umane che finanziarie e tecnologiche, impiegate in base
alla definizione degli interessi strategici strettamente nazionali. Un
meccanismo di cooperazione di intelligence continentale a “vasi
automaticamente comunicanti” sarebbe pensabile solo all’interno di una
quadro istituzionale europeo di tipo federale (per ora solo teorico, per
quanto possa a taluni apparire la struttura di governance più adatta
per affrontare una minaccia terroristica transnazionale per
definizione). Inoltre, per essere efficace, un ipotetico coordinamento
dovrebbe coinvolgere non solo le agenzie governative, ma anche le
strutture informative che operano all’interno di grandi realtà
economico-industriali: un passo di ancora più complicata realizzabilità.
Infine, sarebbe necessario anche il coinvolgimento di agenzie
extra-europee, considerando come alcune operazioni di polizia negli
ultimi anni abbiano visto tra i soggetti coinvolti aspiranti terroristi
extra-europei (per esempio dalla Cecenia o dal Daghestan), e non solo
cittadini propriamente europei.
In definitiva, per le regole e le logiche che governano il complicato
mondo dell’intelligence, un organismo di coordinamento automatico ed
istituzionalizzato tra le agenzie europee veramente efficace è
sostanzialmente fuori dal novero delle possibilità, e lo sarà ancora per
molto tempo, quantomeno fino ad una ipotetica e futuribile Europa
federale. Allo stato attuale e nel breve-medio periodo, è auspicabile il
rafforzamento di meccanismi ci scambio di informazioni, senza tuttavia
che il prodotto di tale collaborazione inter-agenzie possa dirsi
quantitativamente e qualitativamente soddisfacente, considerando come le
informazioni utili non sono necessariamente e soltanto quelle in
possesso delle sole agenzie governative europee, ma anche di quelle
extra-continentali (mediorientali-mediterranee, russe, statunitensi,
etc…) e di quelle non statuali.
Non potendo attendere una salvezza dal jihad che l’UE non è
istituzionalmente in grado di garantire (almeno nel breve-medio
periodo), è necessario che i governi del continente, in aggiunta agli
auspicabili (ma non sufficienti) sforzi di collaborazione bi- e
multilaterale, ridisegnino il quadro delle priorità nazionali nel campo
della sicurezza domestica, dotando gli apparati preposti di risorse e
strumenti di analisi e previsione adeguati, e prendendo coscienza della
improcrastinabilità di coraggiose scelte politiche in grado di
disinnescare le dinamiche socio-culturali (id est, anche intraprendendo
misure ai vari livelli di governo volte alla de-radicalizzazione
religioso-culturale) che hanno alimentato la parabola evolutiva del
radicalismo di matrice islamica in Occidente. E, non ultimo, mettendo da
parte il consolidato atteggiamento (di governi e UE) di “ambiguità” nei
confronti di attori -politici e non- che dall’esterno hanno alimentato
il brodo culturale (e riempito le casse) delle casematte del jihadismo
in Europa.
*apparso
su www.geopolitica.info, centro studi di geopolitica e relazioni
internazionali:
http://www.geopolitica.info/bruxelles-jihad-terrorismo-europa/
Nessun commento:
Posta un commento