Mentre dalle pagine di “Libero” e “Giornale” scatta
l’attacco verso l’Islam e tutti i musulmani e l’ex presidente del Consiglio
Massimo d’Alema suggerisce dedicare sempre nuovi fondi alle mosche e le società
islamiche senza risistemare la problematica struttura della comunità scatenando
l’ira della metà destra (e l’altro quarto ragionevole) Paese, si rischia
nuovamente di perdere il bandolo della matassa, come si ha, peraltro, anche fatto dopo le stragi di
Parigi.
Col senno di poi si vede ben precisa cos’è andato storto.
Una micidiale pavidità nei confronti di politiche reali sul territorio combinati
con retorica ardente sconfinante nel demagogico, allontanando così anche i ceti
moderati delle comunità musulmane, che invece sarebbero stati decisivi per contrastare
la radicalizzazione di ulteriori segmenti della comunità immigratoria e fonti
indispensabili dei servizi d’intelligence per prevenire attacchi successivi.
Il caso del Belgio è emblematico per una politiche
migratorie e d’integrazione completamente fallite. Nel nome di una finta
correttezza politica invece di contrastare i problemi reali le autorità belghe li
ignorava a scanso di provocazioni e perdite di voti tra le comunità migratorie.
Ai servizi d’intelligence venne impedito, poi anche vietato analizzare i dati
raccolti nei distretti ad alto rischio trascinandoli in una disfunzionalità di
fronte alla quale lo spettatore oggettivo non fa che rimanere colla bocca
spalancata. Per colmo di sventura anche la varie unità dei 007 stesse si
dilaniavano per animosità e gelosie territoriali e etno-linguistiche. La
collaborazione tra le sezioni vallone, vale a dire francesi, e fiamminghe era
inesistente quanto quella tra i ministeri
coinvolti, quindi quello dell’Interno e quello della giustizia.
Così si creava un terreno fertile per l’attività nefasta di
organizzazioni integralisti e di matrice
jihadista che colmavano gli spazioni lasciati aperti dalle èlite politiche e
societarie e dallo stato di diritto un po’ più in generale. È qui che si
nasconde difatti la falla decisiva determinante della politica d’accoglienza
del Belgio e la ragione per la quale è così clamorosamente fallita come la è.
I servizi d’intelligence disarticolati e il sistema di
sicurezza disastroso e fallimentare non sono, infatti, una particolarità belga,
bensì un fenomeno piuttosto dispiegato in tutta l’Europa. Da citare per mo’ d’esempio i Paesi Bassi o
anche l’Austria, Paese che gode di addirittura tre servizi d’intelligence, che
tutti i tre sono inetti a monitorare la vasta topografia salafita e
integralista del Paese non riuscendo a scongiurare a radicalizzazione dei
giovani musulmani del Paese.
Così l’Austria è divenuta la seconda nazione europea per
il numero di foreign fighters, nonpertanto il livello di sicurezza soggettiva e
anche reale sono incomparabilmente più alti rispetto alla Nazione cuore
d’Europa. È questo il frutto di una politica sociale profondamente diversa nei
due Paesi. Mentre il Belgio, in virtù di un finto e disonesto politicamente
coretto, promuoveva e tuttora promuove il multiculturalismo, idea astratta che
funziona soltanto nelle menti degli intellettuali buonisti di sinistra
boldriniana, mentre sul campo suscita segregazione e ghettizzazione e di
seguito la creazione di società parallele categoricamente isolate dal
collettivo nazionale, l’Austria punta a una politica profondamente discorde,
all’inserimento sociale, con tutto ciò che questa parola (parolaccia nelle
orecchie dei Nichi Vendola e Laura Boldrini di questo Paese e di questo
continente) implica.
Inserimento sociale, vale a dire l’inserimento dei nuovi
arrivati colla propria cultura nel maggior quadro della cultura che li
accoglie. Quindi non due culture che si miscelano come lo pretende il
fallimentare multiculturalismo, ma una cultura dominante, quella del Paese
accogliente, e altre, quelle dei profughi e migranti in arrivo, che devono
essere, se necessario forzosamente, sottoposte alla civiltà della nazione
accogliente per agevolare e in fondo garantire coesione sociale, stabilità
politico-economica e di seguito l’accettazione e il gradimento delle migrazioni
dalla parte dell’opinione pubblica. Tramite la ragionevolezza dell’inserimento
sociale viene creato un clima disteso e
un campo fertile per lo scambio tra i nuovi arrivati e la popolazione native.
Si evitano quindi la ghettizzazione e le società parallele così inclini alla radicalizzazione. Coll’inserimento sociale invece si facilita
lo scambio interculturale e allentando così la pressione sociale,
specificamente l’ostilità della popolazione maggioritaria verso le comunità
migratorie.
Più durezza nelle politiche dell’integrazione, per mo’
d’esempio tramite cosiddette scuole dei valori, com’è prassi usata, peraltro,
anche in Israele, Paese fin dai principi ha dovuto e anche voluto fare i conti
con onde migratorie sproporzionali, quindi porta con sé più multiculturalità
del multiculturalismo stesso. L’inserimento sociale è quindi la strada (pur
essendo certamente anche impervia) da seguire nei confronti delle comunità
migratorie. Per quanto riguarda l’apparato di sicurezza serve invece una
strategia ben più dura e inesorabile.
Non è accettabile, quanta drammatica sia anche
l’emergenza, che centinaia di mille d’individui varchino le frontiere esterne
dell’Unione senza essere né controllati, né registrati, né smistati in maniera
controllata per i Paesi membri, che invece si dovrebbe fare. Come altresì
agevolare e sostenere il lavoro dei servizi d’intelligence invece di
ostacolarlo nel nome di una “privacy”. Questa
battaglia rientrerà perfettamente nei principi liberali, stella polare
da seguire. Però qualche volta bisogna intraprendere anche dei giretti per
arrivare sani e salvi alla meta. Ad
esempio in questo caso. Perché il nemico da contrastare non è per niente
debole.